mercoledì 16 novembre 2011

Restauratori o conservatori?




Dopo averla a lungo studiata e cercata nei volumi e nelle monografie più accreditate, mi imbatto per caso in quella che può essere sicuramente considerata una tra le più chiare, lapalissiane e inequivocabili definizioni della discussa differenza tra restauratore e conservatore.
La riporto in maniera integrale, nella speranza che susciti in coloro che la leggeranno la stessa stupita approvazione e condivisione.

Mi urla nell'auricolare che "gli amatori delle auto d'epoca si dividono in due categorie: i restauratori e i conservatori". Grido che non capisco, e oltre tutto la cosa non mi pare di grande aiuto per uscire dal monsone. L'altro insiste: "Semplice: i restauratori impermeabilizzano! Verniciano! Chiudono per bene ogni fessura! Rendono tutto più felpato e confortevole! Chiaro?"
Chiaro, e perfettamente inutile.
"Invece i conservatori lasciano tutto così com'è. Sostituiscono il pezzo e basta. Chiaro?"
Chiaro, abbiamo capito che il proprietario della Topo appartiene alla seconda confraternita.
"Se avessi impermeabilizzato le fessure", gracchia al telefono il Righi Roberto mentre ormai ci piove nelle mutande, "l'auto avrebbe perduto la cosa fondamentale: l'odore. Non sarebbe più la Topolino."


E se l'odore di cui si parla fosse la consistenza materica tanto rincorsa e protetta, tanto venerata, quanto trascurata?
Forse la definizione di questa differenza profonda tra le due categorie l'avevo soltanto cercata nel posto sbagliato, e dovevo aspettare di imbattermici per caso, nella lettura spensierata d'altri argomenti, per capirla fino in fondo e farla mia.

da "La leggenda dei monti naviganti", Paolo Rumiz, Ed. Universale Economica Feltrinelli, pag. 250.

sabato 22 ottobre 2011

E' l'America il posto. E tanto basta.



Sono andata a vedere “This must be the place” il giorno in cui ho finito di leggere “Americana”, romanzo di esordio del grandioso Don DeLillo. Sarà pure una coincidenza, ma allora è fortunata.
Il film e il libro sono entrambi la narrazione spettacolare del sogno americano, della ricerca di se stessi e del viaggio di espiazione/redenzione attraverso le lande sterminate dell’America.
Cheyenne (uno Sean Penn da Oscar) è un uomo di successo, profondamente depresso, che si appiglia all’occasione sfortunata che lo porta in America, per compiere il suo viaggio di ricerca introspettiva attraverso i paesaggi sterminati di quel paese, le praterie, i distributori completamente deserti, i motel dalle nuance così scontate.
Vedere il film, avendo ancora così chiara nella mente la narrazione di DeLillo, è stato come se le parole venissero fuori dal libro e diventassero immagini a colori: come se il viaggio di Cheyenne fosse anche un po’ quello di David Bell, protagonista di Americana.
David lascia il suo posto da manager, e parte per un viaggio senza biglietto di ritorno, nell’America più lontana, quella più autentica e meno blasonata.
David Bell deve allontanarsi dalla sua quotidianità per ritrovarsi e per capire che quello che è diventato non è coincidente con quello che vorrebbe essere. Mentre Cheyenne deve rincorrere il passato del padre, per crescere, finalmente, e diventare uomo.
“Quella via era un luogo totalmente americano, monumento alla nostalgia collettiva: leggevamo ad alta voce le insegne dei negozi e guardavamo i fotogrammi patinati nelle bacheche fuori dai cinema. Nessuno ci conosceva e noi non ci conoscevamo.” Sono le parole di David, ma ci parlano anche di Cheyenne, la rock star figlia di uno spettacolare Sorrentino.
In sostanza, ci sono tutti gli stereotipi del mondo americano sia nel libro che nel film. Quello che non si riesce a credere è come nel film a raccontarceli così sapientemente sia stato un napoletano del Vomero!
Belli entrambi questi racconti, anche se alla fine lasciano con il sospetto di aver voluto raccontare troppo: troppe storie che si intrecciano, troppi personaggi e tutti troppo sfaccettati, e lasciano nella sensazione che forse di facce e di storie ne sarebbero bastate anche la metà, per entrare nelle viscere di questo paese.
E’ questo forse a rendere lenta la narrazione del viaggio di redenzione di David Bell e quello di crescita di Cheyenne. Ma quello che me li fa piacere così tanto è che alla fine tutti e due centrano l’obiettivo, e imboccano la strada che vogliamo vederli percorrere.
“L’America può essere salvata solo da ciò che cerca di distruggere.” Continuiamo a percorrere questo sogno americano, che seppur stereotipato, stropicciato, saturo di icone, troppo spesso privo di emozioni, conserva la sua eccezionalità. Solo così potremmo sperare che anche l’America, non più solo gli americani, possa partire per il suo viaggio di espiazione e introspezione, e perché no, anche ritrovarsi, e riscoprirsi così com’è “… il paese più strano, favoloso e pazzesco della storia.”

Riferimento bibliografico:
“Americana”, Don DeLillo, Einaudi, Torino 2008 (prima edizione americana 1971), traduzione italiana di Marco Pensante.

http://www.mymovies.it/film/2011/thismustbetheplace/ Trailer di “Must be the place”

http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/137/cafelib.htm Scheda di Americana.

lunedì 3 ottobre 2011

Paolo Rumiz e la spina dorsale dell'Italia



Paolo Rumiz in “La leggenda dei monti naviganti” parla delle montagne italiane, struttura portante, colonna vertebrale di questo paese. Parte per un viaggio attraverso di esse, che dura 8000 km. Il viaggio vede il suo incipit, quasi simbolicamente, nel Golfo del Quarnaro (Fiume) e termina nel punto più meridionale della penisola, dove è ancora Appennino: a Capo Sud!
E’ un viaggio lungo l’Italia che parte dal mare e finisce al mare.
Paolo Rumiz è un saggio viaggiatore. Non lo si può definire turista, e chi conosce la differenza tra i due termini, sa cosa intendo. Ed è anche un narratore di viaggi, che spesso mi accompagna alla scoperta dei luoghi più reconditi di questa nostra terra vertebrata. Lo aveva già fatto con il suo spartano “viaggio in seconda classe”, attraverso le ferrovie dimenticate, soppiantate dalle “frecce” che l’arco delle FFSS ha saputo regalarci.
Rumiz è in grado di raccontare gli aspetti più autentici e semplici dei luoghi, che spesso non riusciamo a intrappolare nelle nostre macchine fotografiche, perché poco accorti, e troppo presi dalla velocità.



Egli viaggia l’Italia con il tempo dovuto, annotando sul taccuino gli incontri speciali e le tappe del percorso. E nel suo viaggio lungo l’Italia incontra numerose storie da narrare e numerosi narratori d’eccezione: e ci regala i suoi preziosi confronti con Mario Rigoni Stern, con Francesco Guccini e con Vinicio Capossela.
Quest’ultimo gli racconta la sua Irpinia, in un percorso che mi è familiare, ma lo è di più, sicuramente, il racconto del mio Matese e del mio Sannio, negli ultimi capitoli del testo, dove peraltro, tratta il delicato tema della transumanza e della triste fine di questa millenaria pratica attraverso i tratturi che solcano l’Appennino.
Rumiz peraltro si confronta di nuovo con questo territorio nel testo “Quota mille”, per le foto di Francesco Fossa, in cui aggiunge preziose righe a corredo di immagini già fin troppo eloquenti.
Così dice a proposito del Matese: “Tira un vento gelido, sui monti del Matese, e sulle Mainarde è nevicato fino a bassa quota. (…) Tutt’intorno, cime aguzze dal nome eloquente di Pinna, Pizzo e Capa. (…) Intorno, commensali dalle facce sannite, razza osco-umbra, silenziosa e chiusa nella sua lingua stretta da montanari”, parla del Molise, ma a un matesino del versante campano, è una frase che calza a pennello!

Riferimenti bibliografici:
Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”, Feltrinelli, 2007.
Paolo Rumiz, L'Italia in seconda classe, Feltrinelli, 2009.
Francesco Fossa, con scritti di Paolo Rumiz, “Quota mille”, Edizioni Punctum, 2010

sabato 24 settembre 2011

Sono un pezzo di Hangar


L’Hangar Bicocca è da alcuni anni il centro milanese d’eccellenza per l’arte contemporanea e si candida a livello internazionale ad essere tra i più importanti poli di sperimentazione dedicati all’arte contemporanea e alla creatività. E’ un luogo in cui la creatività si esprime attraverso tutte le sue forme: danza, musica, teatro, pittura, scultura, e tutte le espressioni artistiche che si possano immaginare.
Nell’ex area Ansaldo, nella zona Bicocca di Milano, nell’edificio in cui si producevano bobine per i motori elettrici dei treni, è stato collocato questo enorme contenitore dell’arte: 15.000 mq, restituiti alla città nell’ambito del progetto di recupero delle aree che un tempo erano occupate dalle fabbriche del gruppo Pirelli.
Opera che si identifica con l’Hangar fino a caratterizzarlo e distinguerlo in Italia e all’estero è la monumentale installazione permanente di Anselm Kiefer dal titolo “Sette Palazzi Celesti”, che si inserisce magistralmente nell’immensità di questi spazi.
Il calendario delle mostre e degli eventi è sempre fitto e interessante e l’accoglienza del bistrot dell’Hangar rende ancora più intrigante la visita, con gli arredi marcatamente vintage e l’atmosfera squisitamente datata.
L’Hangar è un posto frizzante nella realtà milanese che strizza l’occhio alle realtà straniere di picco nella diffusione, promozione e valorizzazione dell’arte contemporanea.
E’ possibile sostenere l’attività di questa officina dell’arte acquistando il proprio pezzo di Hangar.
Sul sito www.hangarbicocca.it tutte le istruzione per farlo. Io ho già comprato il mio pezzo di Hangar!

domenica 11 settembre 2011

Lo Stato non si occupa dei propri tesori



Il Federalismo Demaniale è legge dello stato (Legge 42/2009) ma è cronaca di questi giorni il mancato accordo tra stato, comuni e altri enti locali, circa l’attribuzione (non onerosa) dei beni demaniali a tali enti. Senza entrare nel merito delle questioni politiche e locali, per le quali non ho le competenze e neanche la voglia di annoiarvi, mi preme particolarmente sottolineare il disastro, peraltro non celato e sotto gli occhi di tutti, dei beni demaniali che versano in uno stato pietoso, e che a dispetto della sopracitata legge dello stato, non possono essere restaurati dagli enti locali che di fatto ne usufruiscono o ne vorrebbero usufruire.
Sono molteplici i casi di edifici storici di estremo interesse architettonico oltre che di incommensurabile valore storico – artistico che versano in avanzato, e talvolta irrecuperabile, stato di degrado. In taluni casi, si assiste ad un vero e proprio abbandono, da parte degli enti locali, sobbarcati dalle spese della gestione ordinaria della cosa pubblica.
L’aspetto più clamoroso di questa storia tutta italiana è che, anche in presenza di fondi da destinare al restauro di questi immobili prestigiosi, gli enti che li hanno in gestione hanno le mani legate e non ricevono dallo Stato il permesso di occuparsene.
Le immagini che condivido con voi sono di uno dei tesori d’Italia, tuttora di proprietà demaniale, in fase di cessione ad un comune, per attuazione della suddetta legge sul federalismo demaniale, ma in stato di avanzato degrado, con perdita già in atto di alcune preziose porzioni, sul quale però non si può intervenire nonostante la presenza di finanziatori privati interessati a contribuire e nonostante la previsione di spesa dell’intervento già fatta dal comune che lo gestisce.
E’ una delle storie tristi tra le tante che si possono raccontare a cui spero si possa porre fine in tempi brevi e della quale mi auguro di potervi raccontare nei prossimi mesi un lieto fine che mi veda coinvolta in prima persona.







domenica 4 settembre 2011

Il Festival delle Arti Performative arriva al Maga


Gli acronimi nell’ambito dei musei d’arte contemporanea, in Italia e all’estero, si sprecano.
Il Maga, aperto di recente nella città di Gallarate, in provincia di Varese, non poteva di certo sottrarsi a questa tendenza. Maga sta per Museo Arte Gallarate, e la visita è caldamente consigliata.
Oltre all’interessante mostra permanente della collezione del museo, dal 2009 ad oggi si sono susseguite mostre di altissimo livello, con le opere di nomi tra i più grandi pittori, scultori, fotografi e artisti del Novecento e contemporanei.
Il Maga ospiterà a partire dal 21 settembre e fino all’8 ottobre prossimi “Performazioni”, il Festival delle Arti Performative, che vede in mostra le opere dei maggiori protagonisti contemporanei della ricerca nel campo delle arti performative. Si tratta di un’importante occasione per la diffusione della “Performance Art” che coinvolge una serie di operazioni artistiche quali la danza, il cinema, il teatro, il video e la poesia, che vicendevolmente si influenzano e interagiscono con un altro elemento di primaria importanza: la presenza del pubblico. Quest’ultimo è certamente l’aspetto peculiare delle arti performative. L’interdisciplinarità e il coinvolgimento dello spettatore al centro di un’espressione artistica che non produce oggetti ma sensazioni, emozioni, impressioni.
Il Festival delle Arti Performative è certamente un’ottima occasione per far visita al Maga.

mercoledì 10 agosto 2011

Alta Irpinia toccata e fuga


In Campania c'è una terra che ha molto da raccontare: c'è un'Irpinia che non ti aspetti e una che preferiresti non trovare. Questo mio racconto attraverso l'Irpinia parte dal casello autostradale di Lacedonia e si inerpica attraverso il paesaggio costellato di pale eoliche. Questa è l'Irpinia che non avevo messo in conto, e che stupisce positivamente e fa riflettere circa i dibattiti sempre accesi, soprattutto nei salotti delle soprintendenze italiane, sull'impatto delle energie alternative sul nostro paesaggio agrario. La quantità di pale è sorprendente e ci comunica, qualora non ce ne fossimo già accorti, che in questo posto è il vento a farla da padrone. Inutile provare a resistergli: le nostre teste sono già scapigliate e gli steli dell'erba dorata sono lì a frusciare per noi!
Le pale, questi “mostri” giganteschi, con le loro ombre laconiche che si stagliano sulla terra, sono dei metafisici uccelli preistorici che ci accompagnano fino ai borghi più sperduti, che abbiamo deciso di visitare. Siamo diretti a Monteverde, e sono le 10:00 del mattino, ma prima di incontrare una sola macchina dobbiamo percorrere almeno 20 chilometri. Non ci dispiace, ci fa sentire dei privilegiati. Il paesaggio è di una bellezza mozzafiato: è disegnato dai campi dorati e dal vento.
Dopo una breve sosta a Monteverde ci dirigiamo verso Aquilonia, e a sorprenderci lungo il percorso che conduce al Lago San Pietro è il borgo abbandonato di Carbonara.
Il terremoto del 1930 ha costretto le persone a scappare, a cercare un nuovo posto in cui (ri)fondare la propria esistenza, non lontano, ma comunque altrove, partendo da zero.
Alcuni dei vecchi edifici del borgo antico sono stati restaurati e il sito è liberamente visitabile: e noi non ci tiriamo indietro.
Dopo questa breve puntata tra stipiti divelti, solai crollati, portali lasciati in piedi a mo' di quinta teatrale, sul paesaggio intorno, ci dirigiamo verso Sant'Angelo dei Lombardi: non possiamo rinunciare ad una visita all'Abbazia del Goleto, tra i siti architettonici di maggiore interesse di tutto il meridione d'Italia.
Infine, si è svelata ai nostri occhi l'Irpinia che non avremmo voluto trovare, quella che attribuivamo a racconti datati, quella che speravamo fosse solo un brutto ricordo. La visita dell'area archeologica dell'antico abitato di Conza della Campania non è possibile: il sito è chiuso, non “per ferie” e neanche per chiusura settimanale. Lo è perché in Irpinia il turismo è ancora diroccato, come quelle case abbandonate in tutta fretta e lasciate ancora lì così.
Non sono bastati 30 anni a cancellare il dolore, il disastro, le macerie, i crolli. Le persone hanno trasferito non molto lontano le loro vite, in nuove case, più confortevoli di quelle che avevano: ma il cadavere di quelle precedenti giace ancora lì sul colle che le sovrasta!

martedì 2 agosto 2011

La Grotta di San Michele Arcangelo a Gioia Sannitica


A Gioia Sannitica, in località Curti, a quota 450 m s.l.m. è presente una piccola chiesa rupestre d'epoca longobarda dedicata al culto di San Michele Arcangelo. L'area, più che una vera e propria grotta, è quasi un riparo sotto la roccia, in cui con la realizzazione di costruzioni murarie si è ricavata una zona pianeggiante ove sono localizzate un’edicola affrescata, un altare e dei gradini di accesso alla vera e propria cavità naturale, protetta a sua volta da un muro affrescato e da una porta in legno. In seguito ad un restauro condotto negli anni scorsi, che ha reso fruibile l’ambiente e leggibili alcuni affreschi che erano coperti da stucchi ridipinti, attualmente la grotta si presenta in discreto stato di conservazione.
All’ingresso l’attenzione è attirata dalle immagini che ricoprono completamente la parete in alto. Le figure sono contornate da una cornice. La raffigurazione è interrotta da alcune lacune e dalla porta d’ingresso alla cavità vera e propria, che è incorniciata con una fascia rossa.
Lo sfondo in basso è realizzato con una fascia gialla, su cui si ha un’area azzurra alta quanto un terzo delle figure, che sono a grandezza reale (alte circa 1,70 m), e quindi con un’ampia fascia nerastra in alto. Due motivi geometrici chiudono la raffigurazione in alto a sinistra e in basso a destra.
Al centro della scena è dipinta la Madonna, con le braccia alzate verso il cielo, in atteggiamento tipico da orante. Il volto si caratterizza per gli occhi rotondi, grandi, con sopracciglia in bruno, che scendono a delineare il naso, e per i pomelli rossi delle guance. A destra della Madonna Orante è posizionato l’Arcangelo. Presenta le ali gialle, e i vestiti giallo e azzurro, le ali sono coperte da un mantello blu e sono gemmate in basso. Le mani sono protese in avanti all’altezza del torace, e lo sguardo è rivolto alla Madonna.
A sinistra della Madonna è presente un santo che occupa tutto lo spazio restante fino alla roccia. Nell’aureola rossastra spicca il volto, caratterizzato dai pomelli e dalle rughe sulla fronte in rosso, e dalle sopracciglia nere, che si prolungano in basso ad evidenziare il naso prominente. Il santo indossa una tunica giallina, con panneggio evidenziato in azzurro, coperta da una casula rossa con drappeggio in nero e bianco.
Al di sopra della porta, larga circa 85 cm, è presente una lunetta, delimitata da una cornice che ricopre quella più antica, in cui è raffigurata la Madonna con Bambino e due Angeli. Sullo sfondo si apprezzano motivi fitoformi in blu.
Il muro lungo circa 3 metri è realizzato in conci di tufo grigio – nerastro nei pressi della porta, a formare gli stipiti, e in bozze di tufo e scapoli di calcare legati con malta dura, grigiastra con piccoli inclusi calcarei.
L’edicola votiva è quasi emisferica, e misura circa 1,70 m per 1,80 per 1,00 e si colloca a destra dell’ingresso del recinto sacro. Gli affreschi dell’edicola sono stati di recente restaurati e messi in evidenza, togliendo parte degli intonaci che li ricoprivano. La cappella votiva di fronte all’ingresso presenta una tipica copertura a capanna, costituita da un manto di coppi sovrapposti.
Il pavimento è in pianelle quadrate di cotto di dimensione 30x30 cm, delle quali è però difficile ipotizzare l’epoca di posa in opera. Le immagini della grotta di Curti potrebbero essere dovute a due mani differenti, di cui una capace di una maggiore intensità cromatica.
Le immagini della lunetta sono chiaramente successive, mentre tutte le altre si rifanno sicuramente ad una tradizione bizantina, che trova riferimenti in affreschi della fine dell’XI e XII secolo, in area campano – laziale. Si tratterebbe quindi di opere di buon livello da inserire tra la metà e la fine del XII secolo. Le iscrizioni dedicatorie sono generiche e non aiutano alla datazione. Sono comunque un esempio di cicli pittorici molto frequenti nell’area del Medio Volturno.
L’ultimo intervento di restauro è stato realizzato nel periodo 2000 – 2001, su progetto dell’Arch. Enrico D’Anna e ad opera della restauratrice Clotilde Palombo. La grotta è aperta e visitabile tutto l’anno. E’ possibile raggiungerla solo a piedi e purtroppo non è accessibile ai diversamente abili.




Bibliografia:

In “Annuario 2003”, Associazione Storica del Medio Volturno, Edizioni ASMV, Piedimonte Matese 2003, “Nota sugli affreschi medievali della Grotta di San Michele a Curti”, di Luigi Di Cosmo, pagg. 49 – 62

In “Annuario 1993”, Associazione Storica del Medio Volturno, Edizioni ASMV, Piedimonte Matese 1993, “Le grotte sacre del Medio Volturno”, di Dante B. Marrocco, pagg. 187 – 218

Inoltre è presente un mio articolo sul sito della Proloco di San Gregorio Matese sul tema del Culto di San Michele Arcangelo nel territorio del Parco Regionale del Matese. Ecco il link!

lunedì 11 luglio 2011

Senza architettura?


Che gli architetti non sempre vadano d’accordo con la grammatica e la sintassi della lingua italiana è ormai cosa nota e stantia e le librerie italiane sono piene di tali testimonianze. Spesso poi le archistar si accusano vicendevolmente di non essere all’altezza di farlo, e finiscono per discutere di quello più animatamente dei problemi che affliggono la nostra architettura italiana contemporanea. E’ quello che è successo anche di recente sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano”.
Questo post, infatti, prende spunto da un articolo, che a latere dell’argomento principale, ovvero la crisi degli architetti italiani, parlava anche di ciò: della loro ostilità nei confronti della scrittura!
Autore dell’articolo a cui mi riferisco è Luigi Prestinenza Puglisi, ed è stato pubblicato nel supplemento “Saturno” dedicato alle arti, de “Il Fatto Quotidiano” di venerdì 8 luglio 2011.
Prestinenza Puglisi analizza la tesi di Pippo Ciorra sviscerata nella sua ultima fatica letteraria pubblicata di recente da Laterza, “Senza Architettura. Le ragioni di una crisi”.
Il libro di Pippo Ciorra, curatore tra l’altro della sezione architettura del nuovissimo Maxxi romano, espone la gravità della crisi in cui soccomberebbe, a sui avviso, l’architettura italiana contemporanea.
La tesi è peraltro banale e trova numerosissimi paralleli negli altri ambiti della cultura e della società, e sostiene che, quando si tratta dei settori della creatività e delle espressioni artistiche, il nostro paese incontri sempre delle serrate resistenze alla diffusione dell’innovazione.
Ma una conclusione di questo tipo rischia di ridurre al nocciolo, peraltro un po’ “smangiucchiato” ed eroso la annosa questione.
Si cade spesso nella banale osservazione per cui sotto il cielo d’Italia non si costruisca niente di nuovo e si finisce per banalizzare ulteriormente la questione affidandone la responsabilità all’abbondanza di architetti, alla cattiva preparazione degli stessi, alla fallimentare organizzazione delle facoltà di Architettura disseminate in lungo e in largo per lo stivale, alla mancanza di occasioni appetitose (leggi “concorsi di idee”) in cui esprimere al meglio la propria inventiva, ma probabilmente non è proprio così se si osserva la questione dal punto di vista, molto accorto, di Prestinenza Puglisi.
Se provassimo infatti ad allungare il naso un po’ oltre i confini della nostra “Italietta” , ci potremmo accorgere che la creatività degli architetti italiani non è così deprimente come Ciorra vorrebbe farci credere.
I progettisti italiani sempre più spesso negli ultimi anni riescono a spuntare all’estero incarichi di successo e notevole prestigio. Si pensi a quanto hanno costruito negli altri paesi Renzo Piano e Massimiliano Fuksas, ma anche alcuni gruppi e progettisti singoli più giovani e più “freschi”, come Mario Cucinella, Michele De Lucchi, Matteo Thun, Cino Zucchi o Italo Rota. E i risultati dei concorsi più recenti testimoniano che presto avremmo altri edifici a firma italiana nei posti maggiormente in vista del continente.
Inoltre, è vero anche un altro aspetto: non sempre la buona architettura italiana va ricercata dietro le grandi firme. E solo affinando un po’ il nostro spirito di curiosità si possono scorgere nella provincia italiana edifici di notevole pregio seppur non griffati!
Si corre il rischio di stare dietro sempre ai soliti nomi e di trascurare il resto che potrebbe rappresentare la parte più interessante.
Il fatto è, a mio modesto parere, che forse la cultura architettonica contemporanea vicina al mondo accademico, è in Italia ancora troppo legata a quello che è successo nel secolo scorso. E uno dei sintomi più eclatanti di ciò è che, sebbene di indiscutibile insegnamento, si facciano vedere agli studenti sempre e solo le solite cose: se i corsi di composizione architettonica delle facoltà italiane la smettessero di ruotare esclusivamente intorno ad Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Vittorio Gregotti, Franco Purini, e affini, forse riusciremmo a vedere il bello e il nuovo che già ci circonda!
Il paese non è “senza architettura” e, i numeri lo dicono, neanche senza architetti. La soluzione per il ritorno dell’architettura in Italia non passa attraverso la commissione di progetti faraonici alle archistar contemporanee, nella speranza di vedere replicato il successo che Bilbao ha riscosso dopo la costruzione del museo Guggenheim.
Un atteggiamento di questo tipo finirebbe solo per tagliare fuori dal mercato locale le generazioni più giovani che a ragion veduta vanno ad esprimersi in posti maggiormente aperti alle nuove idee.
Bisogna puntare sui giovani, affidando loro il cambiamento verso una radicale ridistribuzione del potere culturale e accademico, che sappia guardare alla sensibilità e al coraggio delle istituzioni e dei committenti, nazionali e internazioni, piccoli e grandi, pubblici e privati, e alle scelte imposte dalla realtà in cui viviamo, come la sostenibilità ambientale e la riduzione del consumo di suolo.

lunedì 27 giugno 2011

Bagnoli: dal bianco e nero ai colori


L’immagine in bianco e nero qui sopra è stata scattata il 26 Agosto 1956 e i felicissimi sposi ritratti sono i miei nonni materni, Assunta Sarnataro e Antonio Stanzione.
L’immagine che si scorge alle loro spalle, stagliandosi in maniera inconfondibile è il panorama del promontorio di Nisida, e, sulla destra dell’immagine, il sito dell’ex Italsider a Bagnoli, Napoli, in fervente attività.
I primi insediamenti industriali dell’area risalgono addirittura alla metà dell’Ottocento, con la fondazione degli stabilimenti di Lefevre e della vetreria Melchiorre Bournique.
Nei primi decenni del Novecento si insediano nell’area anche i principali marchi che producono acciai, la cui richiesta vede un incremento notevole in occasione dello scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Nel corso dei decenni successivi si assiste ad una crescita smisurata degli insediamenti industriali nell’area, che coinvolgono un’intera zona della città, compresa la realizzazione degli edifici per le funzioni annesse, come le residenze per gli operai impiegati nelle fabbriche.
Nel 1964 le vecchie acciaierie presenti sul sito modificano il loro nome in Italsider Spa. E questo nome segna poi la storia futura, compresa quella più recente, dell’area, oltre che le vite delle migliaia di operai coinvolti nella storia e nel triste epilogo dell’azienda.
Il periodo a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 vede infatti la cessazione di tutte le attività produttive delle aziende presenti sull’area e comincia una prima fase di abbandono che per certi versi prosegue ancora oggi.
Per esaminare tutte le tappe della storia del sito e delle fabbriche insediate si raccomanda di visitare la pagina Bagnoli Futura, e in giro per la rete sono presenti numerosi altri siti che analizzano questi aspetti.
La storia di Bagnoli si inserisce in un fenomeno ben più ampio che ha rilevanza nazionale e internazionale, che parte con l’abbandono e la dismissione delle più grandi aree industriali sorte a partire dalla fine dell’Ottocento e sviluppatesi per tutto il Novecento, e si conclude nei casi più felici con il loro recupero.
In Italia, i casi di conclusione felice del recupero di aree industriali dismesse sono davvero pochi, e la maggior parte degli urbanisti annovera tra questi il caso del quartiere della Bicocca a Milano, considerato dall’insigne urbanista, Leonardo Benevolo, come l’unico successo nello scenario della pratica del recupero delle aree industriali dismesse. Questo fenomeno è a suo dire gravemente condizionato da processi di valorizzazione speculativa che spesso lasciano pochissimi margini alle singole scelte progettuali. L’architettura diventa un ornamento secondario, anche quando si mobilitano i grandi nomi. A volte, purtroppo si ha la sensazione che queste parti di territorio comunale diventino il cardine di un affare edilizio che neghi la strategia urbana motivata da una necessità sociale e di organizzazione coerente dello spazio urbano.
Per qualche decennio nelle sedi politiche campane, e napoletane in particolare, si è continuamente discusso di recupero dell'area di Bagnoli con un occhio privilegiato al problema occupazionale vagheggiando un nuovo ciclo economico attorno a progetti turistici, immobiliari e talora volgarmente speculativi . I politici di turno ad ogni elezione sparavano proposte sempre "molto originali": un porticciolo turistico, un casinò, una grande area alberghiera etc... Tuttavia e per fortuna i molti nodi da sciogliere, le incertezze politiche, la poca chiarezza di prospettive hanno sempre frenato una progettualità concreta sul problema della bonifica. Poi il progetto di recupero ambientale dell'area di Bagnoli – Coroglio è arrivato.
Il caso partenopeo è per certi versi paragonabile a quello milanese della Bicocca, sia per quel che riguarda la dimensione fisica che per il tessuto culturale che guida l’operazione, ma le vicende che lo riguardano sono più complesse, quasi sicuramente a causa dell’assenza di un unico attore privato che segua lo sviluppo della vicenda, come è invece accaduto con la Pirelli a Milano.
Il processo di recupero dell’area di Bagnoli non si può dire ancora concluso e per molti aspetti è in grave ritardo rispetto alle aspettative.
La speranza è che rispetto all’occasione rappresentata dalle circostanze il tutto non si concluda con un “nulla di fatto” per le persone che ormai da decenni aspettano di vedere conclusa positivamente la vicenda.
Non resta che aspettare che un pezzo di città venga definitivamente e completamente restituito ai napoletani!

venerdì 10 giugno 2011

Tutti i colori dell'Isola di Arturo


Esiste un Mediterraneo autentico, spavaldo e timido al tempo stesso, ignaro del resto del mondo. Si annida nel borgo dei pescatori della Corricella, nelle trame delle reti da pesca, negli alveoli della sua pietra vulcanica, nella sabbia delle spiagge, nei vicoli e nelle scalinate che precipitano verso il mare, nella vegetazione rigogliosa, nelle facciate consunte, nelle tinte sbiadite, nei volti arsi dal sole, nel dialetto che è poesia cantata.

Si scopre questo Mediterraneo percorrendo in lungo e in largo l’Isola di Procida. E’ un Mediterraneo dal sapore contaminato, con sfumature di aromi lontani, di altre terre visitate in passato, sapori africani, napoletani, genovesi, portoghesi …
Si approda sull’isola provenendo da Napoli e ad attendere al porto c’è una colorata accoglienza che mette allegria anche nelle giornate più grigie.

"Un allineamento di case alte, di tutti i colori, strette come una barricata con tante arcate chiuse a mezzo, come strizzassero un occhio. E sopra un verde intenso prepotente, quasi selvaggio, tanta è la forza dei tralci: viti e limoni. Questa prima immagine di Procida si estende a tutta l’isola che è piccola, ma tutta diramata in tentacoli, come i polpi che ancora abbondano nei suoi mari" (Cesare Brandi).

Bisogna visitare Procida per conoscere una Campania sana, che ha voglia di fare e di farsi conoscere, lontana dai riflettori mal attratti che puzzano di marcio sempre puntati su Napoli e da quelli chic di Capri o di Ischia.

Bisogna vedere questo posto per capire che la Campania ce la può fare, mettendocela tutta.

giovedì 2 giugno 2011

Salviamo l'Architettura Italiana del secondo Novecento


Il Decreto Legge n. 70 del 13 maggio 2011 dal titolo "Prime disposizioni urgenti per l'economia" inserisce delle modifiche sostanziali al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che hanno come conseguenza più allarmante quella di escludere dalla tutela tantissimi preziosi esempi dell'architettura italiana del secondo Novecento, innalzando il limite temporale per la tutela dagli attuali 50 anni a 70.

Invito tutti a firmare la petizione per fermare questo scellerato provvedimento e restituire alla giusta tutela questi preziosi edifici.

E' possibile firmare la petizione, che sarà inviata direttamente al ministro Galan per impedire che il decreto legge venga definitivamente convertito e inizi a produrre i propri scellerati frutti.

Nel testo della petizione è contenuto un estratto significativo di tutti gli edifici che il decreto escluderebbe dalla tutela. E' allarmante!

Firmate, firmate, firmate! C'è tempo fino al 12 giugno.

Ecco il link.

Ringrazio l'Arch. Elena Rizzi per avermi segnalato la notizia e per la diffusione della petizione che sta operando.

venerdì 27 maggio 2011

Il retro della città come la polvere sotto il tappeto



Il paesaggio urbano contemporaneo è fatto anche di “retri”. Tanti di questi si concentrano nei pressi delle stazioni ferroviarie, in prossimità dei grandi parcheggi di interscambio, nelle vicinanze degli aeroporti. Sono luoghi ambigui. Osservandoli si ha la sensazione di incompiutezza, continui rimaneggiamenti, riprese, abbandoni: racconti di storie. A me spesso risvegliano anche uno stato di inquietudine e richiamano alla mente l’immagine della polvere sotto il tappeto, quella che c’è anche se non la vedi, l’hai spostata ma non l’hai eliminata. Oggi a Milano è stato sgombrato un retro. I Rom dei binari morti della Ghisolfa sono stati mandati via all’ora di punta, da un assembramento di quindici camionette della polizia di stato, istruiti a dovere, possiamo immaginare bene da chi. Ma i Rom sono come la polvere sotto il tappeto, non sono spariti e stanno già cercando un altro posto dove trascorrere la notte. Loro non sono mai stati importanti, ma oggi alla vigilia di una scelta importante per la politica della città diventano strategici. Il pensiero viene stravolto, non hanno importanza le persone, non hanno importanza le difficoltà dei singoli, non si agisce per la risoluzione programmata di un problema, non se ne trova la soluzione, non si aiuta! Si mette in scena l’ultimo atto di una reclame tragicomica e fatta di colpi bassi.
Tutto l’universo obbedisce alla paura e gli orchestranti la fomentano, la suonano come il gingle di una pubblicità. Non devi pensare, non devi ragionare, devi solo collegare le cose che ti vengono dette, vedi i Rom e inizi a sentire il motivetto. Non esistono argomenti, non esistono fatti, esiste solo la promessa di tenere l’estraneo lontano dalla tua terra, come se fossimo padroni di un singolo cm di questa terra, dimenticando che siamo di passaggio e che dovremmo rispettare tutto e tutti.
Se per decenni ci siamo occupati della facciata, ora non possiamo lamentarci che il retro della città strabordi di polvere.

martedì 10 maggio 2011

Palazzo Verbania e l'opera di Vittorio Sereni


Palazzo Verbania è una bella palazzina liberty collocata in una posizione dominante sulla sponda del Lago Maggiore nel territorio del Comune di Luino.
Fu costruito nei primi anni del Novecento e inaugurato nel 1904, su progetto dell’architetto e ingegnere luinese Giuseppe Petrolo.
L’edificio fu costruito per essere il kursaal della città e un locale per divertimenti, centro di attrazione per i turisti e un moderno e luminoso capolinea ideale per le linee ferroviarie e quelle lacuali, a servizio della facoltosa aristocrazia che affollava Luino in quel periodo. Fu successivamente trasformato in albergo, e poi in biblioteca.
Nel progetto per il Kursaal va sottolineata l’ardita scelta stilistica e la correttezza dell’impianto generale, aperto al paesaggio e orientato al lago, con cui da oltre un secolo continua a dialogare.
Esso rappresenta il perno del rinnovamento edilizio e urbanistico della città, sulla cui scia furono costruiti meravigliosi edifici, soprattutto ville, fabbriche e alberghi che caratterizzarono la belle époque luinese.
Oggi l’edificio è sede del Museo Civico e ospita interessanti mostre temporanee ed eventi culturali.
Attualmente è in corso la mostra “Vittorio Sereni, parole per musica fiorite”, una mostra multimediale, a ingresso libero, fino al 28 maggio (orario: dal martedì alla domenica, 9:00 – 12:00 / 15:00 – 18:00), dedicata all’opera di Vittorio Sereni (Luino 1913 – Milano 1983), una tra le voci più alte della poesia italiana del secondo Novecento, che ha celebrato con i suoi versi Luino e i luoghi più belli del Lago Maggiore.
Oltretutto, la location di questa mostra a Palazzo Verbania chiude il cerchio di un percorso tra poesia e architettura che coinvolge l’edificio e il poeta Sereni.
Tra i suoi versi, infatti, nella raccolta “Frontiera” compare la poesia “Terrazza”, per la quale molti studiosi sono concordi nel riconoscere la bellissima terrazza a lago di Palazzo Verbania.


Terrazza

Improvvisa ci coglie la sera.
Più non sai
dove il lago finisca;
un murmure soltanto
sfiora la nostra vita
sotto una pensile terrazza.

Siamo tutti sospesi
a un tacito evento questa sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira e se ne va.


(Vittorio Sereni)

martedì 26 aprile 2011

Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Nanni


E’ uscito ormai da 2 weekend nelle sale italiane l’ultimo lavoro di Nanni Moretti, e, senza troppa sorpresa, sta registrando un enorme successo ai botteghini.
Il titolo di questo post fa eco alla bellissima (finalmente) copertina dell’Espresso di qualche mese fa, di cui compare un ritaglio nella foto in alto, che ha avuto solo il difetto di avere troppa fretta di uscire (a febbraio, con due mesi di anticipo rispetto all’uscita della pellicola nelle sale).
“Habemus Papam”, lo dico subito, per fugare ogni dubbio, è il miglior cinema italiano degli ultimi anni, ed è, per fortuna, il solito Moretti.
Non è un film contro la Chiesa, e lo dimostra, se ce ne fosse bisogno, la pubblicità favorevole condotta per il film dal settimanale cattolico “Famiglia Cristiana”, che in un articolo suggerisce caldamente di andare a vederlo. E’ piuttosto, paradossalmente, un film “pro”. Potrebbe fornire, infatti, un prezioso spunto di riflessione per la Chiesa e la società civile. Ma sarà come al solito, nella nostra storia recente, un’altra occasione perduta!
A differenza di altri apprezzabili e noti registi italiani, Moretti si fa sempre attendere. Trascorrono sempre alcuni anni tra i suoi lavori, e quando questi arrivano, seppur in gestazione da anni, riescono sempre ad essere di un’attualità e una contingenza sorprendenti.
E’ attualissima, infatti, questa pellicola sulla crisi esistenziale di un uomo e di un’istituzione, almeno quanto lo era stato “Il Caimano” nel 2006.
E’ come se il genio di Moretti avesse un’intuizione inspiegabilmente anticipata nel tempo e riuscisse a svilupparla giusto in tempo per consegnarla al pubblico nel momento culminante dello svolgimento dell’evento o della storia raccontata.
E’ geniale questo papa morettiano, interpretato da Michel Piccoli, che aggiunge, qualora ce ne fosse stato bisogno, una forza e una straordinarietà ancora maggiori al film. E’ un uomo tormentato da una profonda crisi esistenziale che non si può che condividere e analizzare.
E’ divertente e surreale la narrazione, come lo era stata quella di altri film morettiani, ma non sento di poter sostenere il paragone con “La messa è finita”, che è stato da più fronti caldeggiato. E’ un film diverso, che racconta di oggi, e che non può avere molto in comune con quello che aveva ispirato l’altra geniale pellicola del regista. Ma è anche una pellicola un po’ rassegnata, soprattutto nel finale, che è certamente inatteso, quanto surreale.
E’ davvero il solito Moretti, quindi, e lo è anche perché non delude mai le lunghe attese a cui purtroppo ci ha abituato. Il cinema italiano avrebbe bisogno di più lavori come questo.
Dove si inseriscono allora le calde e sentite polemiche di quella parte che al film e a Moretti si oppone? Non si giustificano a mio avviso, e perdono l’occasione di un confronto che invece potrebbe consentire di affrontare con maggiore consapevolezza la crisi che è sotto gli occhi di tutti.
Il polverone che ha suscitato non si giustifica, se fine a se stesso perché ancora una volta è come se Moretti potesse essere usato per accogliere tutte le critiche che gli organi preposti non sono in grado di muovere contro queste nostre morte istituzioni in decomposizione. E’ come se, questo Moretti, che dice esattamente quello che tutti vorremmo dire, ci desse quasi fastidio, perché non siamo noi a dirlo.

sabato 9 aprile 2011

Ecco perché abbiamo il dovere di occuparci del Paesaggio


Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D. Lgs. 42/2004 e succ. mod.) dà mandato, in conseguenza di molte altre iniziative culturali e legislative, agli architetti specializzati in Conservazione dei Beni Architettonici e del Paesaggio di occuparsi anche della tutela del paesaggio in quanto bene culturale. Questa premessa estremamente semplicistica è necessaria a comprendere quanto segue, ovvero la mia tesi sull’entropia del sistema paesaggio.
La grandezza fisica dell’entropia viene interpretata come una misura del disordine di un sistema fisico o più in generale dell'universo. L’entropia aumenta perché la natura tende verso “stadi” più probabili. L’entropia non misura il disordine ma il numero di possibilità che il sistema ha di disporsi al suo interno.
Il concetto di entropia è strettamente connesso al Secondo Principio della Termodinamica, che tiene conto del carattere di irreversibilità di molti eventi termodinamici.
Se pensiamo al paesaggio come a un linguaggio, a una forma di comunicazione che ha una sua logica e una sua struttura, esso è quindi un sistema. Un sistema è genericamente un insieme di entità connesse tra loro tramite reciproche relazioni visibili o definite dal suo osservatore.
La caratteristica di un sistema può essere l'equilibrio complessivo che si crea fra le singole parti che lo costituiscono. Ogni disciplina ha i suoi propri sistemi, sia a scopo funzionale, che a scopo strutturale/organizzativo, o con intenti di classificazione e ordinamento.
L’analisi sistemica nello studio del paesaggio, così come sostenuto di recente da alcuni esperti della materia , consente di individuare gli elementi del paesaggio, di trovare e verificare le relazioni che esistono tra gli stessi.
Inoltre, lo scopo di un approccio sistemico allo studio del paesaggio è anche quello di condurre un’analisi non solo qualitativa ma anche quantitativa che tenti di minimizzare la componente soggettiva nel momento dell’analisi.
Ma cosa si può definire paesaggio? Ci sono luoghi in cui l’uomo non sembra essere mai andato, luoghi in cui l’uomo non è effettivamente mai stato, e poi ci sono luoghi plasmati dalla presenza dell’uomo. Questi luoghi sono tutti paesaggio?
E’ molto complicato definire il termine, ma per semplicità e affinità di interpretazione mi piace ricordare la definizione che ne fa la “Convenzione Europea del Paesaggio”, in cui si legge: "Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.
Il documento parte dal presupposto di una visione dinamica dell’idea di paesaggio di cui sono portatrici le popolazioni che lo vivono. Il paesaggio è sempre in trasformazione: la popolazione ha una sua visione consolidata e gli strumenti di pianificazione forniscono il quadro conoscitivo di partenza. Gli abitanti nel tempo elaborano immagini, rappresentazioni sempre più elaborate del paesaggio, hanno una visione non statica del paesaggio che si trasforma; cambia l’idea del paesaggio nelle popolazioni che lo vivono.
Quindi, certamente al nostro scopo è rilevante il contributo della popolazione alla definizione del paesaggio e l’importanza delle interrelazioni tra fattori naturali e fattori umani.
Esistono diversi approcci e diverse letture del paesaggio: il criterio vedutistico, il criterio strutturale e il criterio simbolico. E in questo contesto privilegiamo un approccio strutturale per la conoscenza del paesaggio.
Una volta definiti i termini della questione, possiamo così sintetizzare l'entropia del Sistema Paesaggio: tanta più energia si trasforma in uno stato indisponibile, tanta più sarà sottratta alle generazioni future e tanto più disordine proporzionale sarà riversato sull'ambiente.
Un passaggio successivo di questo tipo di approccio al paesaggio può essere quello che lo assimila alla struttura della mente, o meglio agli aspetti mentali dell’organismo in relazione al loro rapporto con la natura. Gregory Bateson, in “Mente e natura” si chiede “Quale struttura connette il granchio con l'aragosta, l'orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l'ameba da una parte e con lo schizofrenico dall'altra?”.
Egli giunge a costruire un quadro di come il mondo vivente è collegato, cioè di come avviene l’interazione fra quei sistemi circolari complessi che caratterizzano gli organismi, i loro scambi e la loro organizzazione interna: le ‘totalità’ sono costituite appunto da questa interazione combinata. A tale interazione combinata nei sistemi complessi Bateson dà nome di Mente, essa è funzione immanente alla differenziazione fra le “parti”. Vale a dire che nessun individuo, evento, comportamento o pensiero può essere compreso se non a partire dal sistema che lo ha generato e dai sistemi più ampi che lo contengono e con i quali interagisce. La totalità della Creatura (l’ecologia planetaria) e ciascuna delle sue componenti (organismo individuale, sistemi interattivi, ecosistemi, etc.) sono dotati di processi mentali.
Bateson afferma che l’unità fondamentale dell’evoluzione non è l’organismo o la specie, ma l’organismo + l’ambiente (cioè, il sistema mente). C’e quindi una connessione profonda fra pensiero e biosfera, mente e natura.
L’idea che egli sviluppa è che mentre il mondo fisico ripete meccanicamente nessi lineari di tipo causa-effetto, l’evoluzione e il pensiero siano simili in quanto partecipano ai processi circolari di apertura al nuovo e di ricombinazione continua con elementi conservativi. Ovvero, vi è un flusso di eventi per certi aspetti casuale e un processo selettivo non casuale che fa sì che alcune delle componenti casuali sopravvivano più a lungo di altre. Senza il casuale, non possono esservi cose nuove. Il processo creativo deve sempre contenere una componente casuale che apre al nuovo ed una componente “conservativa” che lo incorpora. Per Bateson, Mente e Natura sono dunque due grandi sistemi che in parte interagiscono in parte sono autonomi: un sistema è dentro l’individuo ed è detto apprendimento, l’altro è immanente nell’ereditarietà e nelle popolazioni ed è chiamato evoluzione: pur lavorando a diversi livelli di tipo logico, si combinano a fare un'unica biosfera dinamica, che potrebbe coincidere con la nostra idea di paesaggio, così come abbiamo tentato di definirla finora, e a partire dagli spunti della Convenzione Europea.
Da ultimo ciò che con Bateson cerchiamo di afferrare è un’interconnessione, un’interazione fra passaggi, la metastruttura, la struttura che connette. In altre parole come si possono ricombinare i due sistemi in cui egli ha diviso tanto l’evoluzione quanto il processo mentale ai fini dell’analisi? Come passare dal singolo fenomeno creaturale alla totalità delle interconnessioni interne ed esterne? Bateson si richiama alla gerarchia dei tipi logici di Bertrand Russell: le componenti di una gerarchia russelliana stanno fra di loro come un elemento sta ad una classe, una classe ad una classe di classi o una cosa sta al proprio nome. Attraverso questa scala si può pensare alla struttura che connette, poiché essa è una metastruttura, una struttura di strutture. Egli sollecita a pensare struttura non come a qualcosa di statico, ma come un sistema dinamico di parti interagenti (il nostro paesaggio?).
Questo vale per Bateson come paradigma non solo della percezione, ma anche della conoscenza, del mondo sociale e della stessa evoluzione.
E’ questa che lui definisce struttura “danzante” che connette sia il sistema mente che quello natura, sia il sistema mente e natura.
Inoltre, la posizione espressa da Bateson è proiettata verso la costruzione di una prospettiva ecologica: recuperando quel senso di unità di biosfera ed umanità che ci legherebbe e ci rassicurerebbe tutti con un’affermazione di bellezza, l’umanità potrebbe salvaguardare il suo ambiente e se stessa dalla catastrofe.
In conclusione, l’aver ipotizzato che il paesaggio può essere interpretato come un sistema di elementi in relazione tra loro e connessi da strutture fisiche oltre che mentali, ci consente di indagarlo con gli strumenti della scienza sistemica e di sviscerarne gli elementi e le relazioni che lo regolano.
Inoltre, l’aver considerato questo sistema paesaggio come sottoposto ai principi della termodinamica e quindi anche dell’irreversibilità ci impone di osservarlo e “prenderci cura” di esso con un approccio che potremmo banalmente definire “ecologico”, dove con ecologia intendiamo però la razionalità ecologica, ovvero il raggiungimento di un’idea sintetica dotata di creatività e razionalità che consente di attuare il salto dal momento stocastico a quello della consapevolezza e della certezza.

giovedì 31 marzo 2011

A Montespertoli il teatro è di strada


Nel cuore del Chianti toscano, immerso nelle colline di Montespertoli (FI) ha sede la Compagnia “Cantiere Ikrea”, un'associazione che organizza e produce spettacoli e animazioni teatrali di strada, di circo contemporaneo e animazione di contatto riunendo clown, giocolieri, trampolieri, mangiafuoco, musicisti, educatori e attori. L'associazione promuove, in collaborazione con altre realtà del settore, o organizza in proprio, iniziative formative per artisti di strada, attori e per chiunque voglia avvicinarsi alle arti di strada, alle discipline acrobatiche o alla giocoleria.
Il primo nucleo IKREA nasce nel 1995 dall'incontro di personalità e professionalità diverse, che insieme iniziano a creare spettacoli per bambini, performances di strada e animazioni ispirate al mondo del circo.
Negli anni vengono utilizzate e migliorate le tecniche dei trampoli, della giocoleria, dell'acrobatica, dell'uso del fuoco, e vengono studiate e sperimentate tecniche del teatro di figura: le ombre, i pupazzi, le maschere, i giochi di luce, la musica e le sonorizzazioni dal vivo.
Il circo e l'arte di strada restano gli interessi vitali e primari di Cantiere Ikrea che organizza e partecipa a rassegne e stages di formazione con artisti internazionali, promuove e produce nuovi progetti e spettacoli adatti a spazio e pubblico più specificamente "teatrali".
Dai lavori più recenti sono nati molti personaggi e si è spontaneamente creata la piacevole consuetudine di creare interventi unici pensati per i luoghi e le persone.
I componenti della compagnia, guidati da sempre dalla Direzione Artistica di Luca Perrotta, provengono da esperienze diverse ma tutte percorse attraverso una formazione decennale negli ambiti in cui oggi manifestano la loro arte.
Nel corso degli anni ’90 le attività della compagnia si sono concentrate essenzialmente nella formazione, attraverso la frequenza e la partecipazione come docenza a corsi sulle tecniche di comunicazione e di educazione oltre che sul circo. In quegli anni la compagnia è attiva anche con il “Ludobus di Ikrea”, un autobus che realizza un circo itinerante che porta clowns e trampolieri in giro per la Toscana.
Negli anni la fama della compagnia è cresciuta, grazie anche alla partecipazione a numerosi e famosissimi festival in giro per l’Europa.
Ad esempio, nel 2006 Cantiere Ikrea ha partecipato con uno spettacolo di propria produzione “Babuska Love Match” al Carnevale du Mundo a Madrid. Nello stesso anno inizia anche un’esperienza che è ormai quasi una consuetudine, con la partecipazione al Festival Internazionale degli Artisti di Strada in Polonia, a cui la compagnia partecipa ormai tutti gli anni con spettacoli sempre rinnovati e successi notevoli di pubblico. Inoltre, Cantiere Ikrea è da sempre sensibile ai temi della sostenibilità ambientale e degli stili di vita critici, e lo dimostra anche con la partecipazione attiva, come partner, al Progetto Carovanando, finanziato da Cesvot, e promosso dall’Associazione fiorentina Il Villaggio dei Popoli, nella primavera del 2008, che ha avuto lo scopo di diffondere queste tematiche nei comuni della Provincia di Firenze, anche attraverso la magia dello spettacolo.
Pluriennale è, ormai la partecipazione all’ “Orange Elephant Festival”, di San Pietroburgo e quella al nostrano “Festival Fiabesque” che va in scena a Peccioli (PI) nel mese di gennaio.
Bisogna annotare anche la collaborazione alla fondazione e la consulenza al Jack & Joe Theatre di San Casciano Val di Pesa (FI), uno spazio in cui si sviluppano interessanti sperimentazioni nell’ambito del teatro, e dove Cantiere Ikrea ha intrapreso la proficua collaborazione con lo strepitoso artista russo Alexey Merkuschev, che tuttora prosegue e che accompagna la compagnia nelle rappresentazioni messe in scena in occasione dei festival russi.
Nel corso degli anni sono state molte le animazioni e gli spettacoli prodotti dalla compagnia Cantiere Ikrea, sia in autonomia che in collaborazione con altre compagnie e associazioni di artisti di strada, della Toscana e non solo. Gli spettacoli e le produzioni attuali derivano da quelle che si sono susseguite nel corso degli anni, arricchendosi di nuovi numeri, performances e attrazioni, oltre che con le cresciute abilità e professionalità della direzione artistica e dei membri della compagnia.
Tra le produzioni principali (che per i più curiosi sono ampiamente illustrate nel sito della compagnia): Circo ‘900, spettacolo ispirato al circo di strada dell’immediato dopoguerra; Infabula, performance di danza e commedia dell’arte, infervorata dalla magia dei trampoli e del fuoco, grazie alla preziosa collaborazione con l’artista siciliano Antonio Bonura; Zott, il fuoco che cammina, evoluzione della performance Infabula e dello spettacolo “Babuska Love Match”, con danzatori, esperti del fuoco e suggestioni musicali.

(La fotografia in alto è stata gentilmente condivisa da Luca Perrotta)

martedì 22 marzo 2011

Le Torelle, come sono




Le Torelle, com'erano






C'erano una volta le Torelle


Ai posteri non è dato conoscere la storia.
Nel Comune di San Potito Sannitico, in Provincia di Caserta, appena prima di entrare nel centro abitato, nella parte occidentale del paese, sorgeva fino a qualche anno fa un complesso di edifici di una bellezza e un’importanza storica e architettonica probabilmente senza simili, in tutto il territorio dell’Alto Casertano. Si tratta del Complesso Monumentale delle Torelle, un complesso architettonico, cresciuto su se stesso nel corso di dieci secoli di storia, e che ha visto la morte definitiva negli ultimi anni.
Le fonti storiche sul complesso architettonico sono molto discordanti e purtroppo lacunose. Negli archivi storici si fa fatica a ritrovare documenti che si riferiscano direttamente agli edifici che lo costituiscono, ma nei principali testi di storia locale compaiono differenti notizie.
Queste giungono essenzialmente all’interrogativo “Terme o Villa alle Torelle?”, che ha assillato anche uno dei maggiori storici locali, quali Domenico Loffreda. Ma il dott. Loffreda non è stato l’unico a interessarsi dell’edificio. Notizie sulle Torelle sono rintracciabili anche in uno dei più antichi testi di storia locale, quale quello del Trutta (Dissertazioni istoriche delle antichità alifane). Esso, per la sua monumentalità e le sue particolarità architettoniche ha sempre riscosso molto interesse, fin dall’antichità.
Le Torelle sono state oggetto di un “restauro” nel corso degli ultimi anni, che ha consentito di uscire dalla situazione di abbandono, che perdurava da quasi un secolo, e che lo aveva condotto allo stato di rudere, ovvero da quando il cimitero del paese è stato trasferito nella sua sede attuale.
Mi piacerebbe raccontarvi della nuova vita restituita a quelle pietre di 1000 anni, plasmate e consunte dal tempo, mi piacerebbe congratularmi con l’amministrazione locale e con gli enti preposti alla tutela degli edifici storici, ma purtroppo non può essere così.
Infatti, sotto gli occhi indifferenti o poco accorti di tutti, con il benestare del Comune, proprietario del bene, con il “nulla osta” della Soprintendenza ai Beni Architettonici e al Paesaggio, e con il contributo economico, tutt’altro che esiguo, elargito dalla Comunità Europea, l’edificio è stato completamente stravolto, tradito e violentato.
E’ un restauro quello condotto alle Torelle? Non può essere certamente definito tale.
Non si può infatti definire restauro un intervento che non tiene conto della natura del luogo, della consistenza materica dei manufatti, della loro conservazione e del rispetto per i secoli trascorsi.
Andando oggi alle Torelle si “ammira”, in tutto il suo “splendore” un nuovo edificio, in luogo del rudere che raccontava secoli di storia locale.
Alla comunità locale è stata estorta una porzione, la più ricca e la più antica, della propria storia, violentandone le radici, nel luogo della cultura religiosa e della memoria per eccellenza (le Torelle sono state a lungo il luogo della sepoltura degli abitanti di San Potito) e nessuno potrà più restituirla.
Il compenso di cui è stata decorata la comunità locale e la popolazione di tutto l’Alto Casertano è la sede, che probabilmente non entrerà mai in funzione, del “Museo del Brigantaggio”.
Mi prendo sempre la responsabilità di quello che dico e soprattutto se parlo di qualcosa che mi sta particolarmente a cuore.
Ed è per questo che mi sarebbe piaciuto assistere a un intervento maggiormente rispettoso della memoria e della materia custodita in quelle pietre. E per questo urlo il mio sconcerto e denuncio che è stata persa l’occasione di restituire alle Torelle una nuova vita, rispettosa della memoria ma contemporaneamente proiettata al futuro.
Infatti, conservare non vuol dire imbalsamare, non vuol dire rinunciare ad utilizzare gli edifici storici, vuol dire portarli nel futuro con una nuova vita, rispettosa del passato.
Ogni singola pietra, ogni centimetro di malta, ogni mattone, ogni nicchia, ogni muro, ogni lastra, alle Torelle, raccontava qualcosa, ci raccontava di un popolo in bilico tra la cultura pagana e quella cristiana, ci raccontava di una storia che partiva dai romani, o forse prima, e ci conduceva al secolo scorso, ci raccontava della grandezza di questo territorio e della sapienza costruttiva dei suoi architetti e dei suoi maestri costruttori. Avrebbe potuto continuare a raccontarcelo, ma non è così.
Tutto ciò non ci sarà più raccontato, solo perché si è deciso di percorrere la strada di un restauro poco rispettoso delle preesistenze e rivolto solo alla convenienza del momento.
Sono pronta a confrontarmi con chiunque voglia interrogarsi sull’accaduto o rispondere alle mie domande, a cui da mesi cerco di dare una risposta di senso compiuto. Non si può lasciar correre. Non si può aspettare che la convenienza del momento di attingere a fondi pubblici continui a cancellare la storia di un popolo e di un territorio.
Bisogna raccontare quello che è successo alle Torelle per evitare che continui ad essere questo il metro utilizzato, per evitare che altri pezzi di storia vengano cancellati e per evitare che i nostri figli si ritrovino in un luogo in cui la memoria non abbia testimoni.

domenica 6 marzo 2011

A "quota mille" c'è un Matese autentico


“Quota mille” è l’appropriatissimo titolo di un libro pubblicato alcuni mesi fa, dalla casa editrice Punctum, con fotografie del fotografo Francesco Fossa, e scritti di Paolo Rumiz.
I meravigliosi scatti hanno per oggetto il Matese.
“Quota mille” è un libro di fotografie, che con pochissime, misurate e calzanti parole di Paolo Rumiz, riesce a descrivere in una maniera sorprendente il paesaggio, ma soprattutto la gente del Matese.
Il Matese raccontato dal fotografo è autentico, senza giri di parole, senza costruzioni scenografiche allo scopo di impressionare l’osservatore. E’ puro, come pura è l’aria che si respira attraversandolo, e che a fatica ci consente di collocarlo in Campania, a meno di 100 chilometri da Napoli e dal veleno che la affligge.
Le immagini raccontano il paesaggio, ancora per certi versi incontaminato, con scatti che ne sottolineano le asperità, le peculiarità, i colori, i suoni, la materia di cui è fatto. Ma la maggior parte delle immagini raccontano di un popolo, unico perché plasmato dalla propria terra e con questa in simbiosi. Raccontano i gesti quotidiani della gente del posto.
Nelle fotografie di Fossa ci sono, infatti, i pastori, i pochi sopravvissuti all’evoluzione dei mestieri e alle difficoltà di un lavoro prezioso ma logorante; ci sono gli agricoltori. Non è un caso, a mio avviso, che non ci siano ragazzi. Perché il “volto” del Matese è vecchio e rugoso, è ruvido e schivo, ma avvolgente, come le grotte, le valli, gli orridi, gli anfratti, i torrenti, i percorsi che lo caratterizzano.
Nelle immagini ci sono i sapori della tradizione.
Lo stesso fotografo, a conclusione del testo, ringrazia questo popolo che gli ha aperto le porte per essere raccontato: il matesino è schivo per natura, ma orgoglioso e fiero. E il fotografo è in grado di raccontarcelo.
L’autenticità degli scatti, seppur sapientemente ed evidentemente rielaborati al computer, per ottenere effetti di maggior eloquenza e impatto, è sorprendente.
E’ così autentica la fotografia di Francesco Fossa che porta Rumiz a parlare di neo-realismo. E come non essere d’accordo.

Francesco Fossa, “Quota Mille”, (con testo di Paolo Rumiz), Edizioni Punctum, Roma, 2010, 96 pag., ISBN 978-88-95410-26-5

martedì 22 febbraio 2011

Villa Menotti a Cadegliano Viconago


La Villa Menotti è una delle ville storiche del Comune di Cadegliano Viconago. Si tratta di una serie di edifici costruiti a partire dal 1850, in un’epoca nella quale il tema della dimora signorile iniziava a perdere di vigore. Le ville di Cadegliano meritano un attento esame perché costituiscono un fenomeno esemplare del modo di organizzare il territorio nelle colline dell’alto varesotto.
Si tratta, infatti, di un intero paese caratterizzato dalla presenza di un numero considerevole di ville con parchi e giardini di una certa importanza, la cui genesi va ricercata in un substrato sociale e un aggancio alla tradizione di estremo interesse.
Dalla presenza di così numerosi parchi e giardini in un agglomerato residenziale di scarsa importanza, emerge l’alto interesse ambientale del complesso, ancor più accentuato dalla felice posizione naturale. Cadegliano infatti si colloca in una conca verdeggiante con esposizione Nord – Est che domina un ramo del Lago Ceresio (Lago di Lugano).
Nella prima metà del XIX secolo il paese ha vissuto un’infelice condizione economica che ha favorito l’emigrazione di molti abitanti nelle grandi città italiane, ma anche in Europa e in America. Al ritorno da questo periodo di emigrazione, forti della tradizione di maestri muratori, molti si dedicarono alla costruzione della casa.
In questo ambito si colloca la personalità più rappresentativa che fu quella di Giorgio Pellini, architetto della Villa Menotti.
Giorgio Pellini ( morto a Cadegliano nel 1874 ) lavorò a Milano a fianco dei maggiori architetti eclettici dell’epoca e tornato a Cadegliano, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, quando gli toccò personalmente il ruolo di progettista non si lasciò prendere la mano dall’imitazione dei troppo facili modi utilizzati dall’architettura ufficiale, ma si ricollegò alla tradizione locale della casa agricola a logge che, soprattutto nell’alto varesotto, si era definita secondo uno schema ben preciso. Il suo è un modo di procedere nel grande filone dello storicismo ottocentesco che evidentemente assume la tradizione in termini assolutamente vivi ed originali .
A Cadegliano è autore della Chiesa di Santa Maria, di Villa Pellini (1850), di Villa Pellini Pelegatta (1860) e di Villa Menotti (1870).
Anche nella Villa Menotti, il gusto eclettico compare accanto agli schemi derivati dalla tradizione locale. Pur mantenendo in parte sul prospetto principale lo schema tripartito di tipo tradizionale, Villa Menotti se ne discosta decisamente, poiché utilizza il porticato solo al piano terreno. Nei piani superiori è conservata la triplice partitura della zona centrale, ottenuta col sapiente uso di lesene e cornici, ma la loggia scompare, per fare posto alle tradizionali finestre, con poggiolo centrale.
Anche se planimetricamente la casa è limitata al tradizionale rettangolo, ha indubbiamente una complessità paesistica connessa con l’ampio parco che la circonda, suggerito dal dislivello naturale che lo caratterizza.
Rispetto alle altre ville del paese, contiene già alcune anticipazioni dei caratteri delle costruzioni liberty, e si articola su tre livelli fuori terra e un livello interrato.
La villa è stata commissionata a Giorgio Pellini dal facoltoso Alfonso Menotti, padre del compositore e librettista Gian Carlo Menotti (Cadegliano-Viconago, 7 luglio 1911 – Monte Carlo, 1º febbraio 2007), ultimo membro della famiglia a conservare l’intera proprietà della villa, fino agli anni ’50 del Novecento. Giancarlo si trasferì giovanissimo (nel 1921) negli Stati Uniti, e tornava a Cadegliano solo in vacanza, con il compositore americano Samuel Barber.
La posizione della villa è dominante rispetto allo scorcio di paese in cui sorge. Il parco della Villa Menotti è caratterizzato dalla presenza di numerosi alberi, sempreverdi e a foglia caduca, alcuni dei quali piantati in occasione della fondazione dell’edificio, quindi esemplari ormai ultracentenari. Durante gli anni, alcuni alberi sono poi stati sostituiti o aggiunti, soprattutto per quello che riguarda specie esotiche o comunque non autoctone.
All’interno del parco, che si estende attualmente in una superficie non superiore ai 3000 mq, mentre in origine era molto più vasto (l'estensione originaria del parco, quando la proprietà era indivisa, arrivava a circa 20.000 mq), si trova anche una sorgente.
Attualmente la villa è suddivisa in alcuni appartamenti ed ospita la sede della notissima compagnia teatrale Teatro Blu, diretta da Silvia Priori.
Quest’anno, dal 7 al 10 luglio, la villa sarà sede di un festival organizzato dalla compagnia per festeggiare l’occasione del 100° anniversario dalla nascita di Gian Carlo Menotti, per il quale la compagnia presenta anche una nuova produzione a lui dedicata. Sarà sicuramente un’ottima occasione per ammirare la villa e il parco, ancora meravigliosi, nonostante le insidie del tempo che imporrebbero un intervento conservativo immediato.

Bibliografia:
“Ville delle province di Como, Sondrio e Varese : Lombardia 2”, Santino Lange'. – Milano, SISAR, stampa 1968. - 411 p. : ill. ; 32 cm

sabato 12 febbraio 2011

Il Quarto Stato ha una nuova casa


Nello scorso mese di dicembre è stato inaugurato a Milano, presso il Palazzo dell’Arengario, il Museo del Novecento. In quest’occasione il dipinto de “Il Quarto Stato” (1901) di Pellizza da Volpedo, è stato trasferito in questa nuova sede, dalla Galleria d’Arte Moderna di Villa Reale.
Viste le dimensioni notevoli del dipinto, il trasloco è stata impresa tutt’altro che semplice e ha coinvolto un certo numero di persone per una giornata intera di lavoro, se si escludono le fasi preliminari e organizzative della movimentazione.
Oltre ad ospitare il famoso quadro, sicuramente predestinato simbolo della casa del Novecento, il museo del capoluogo lombardo ospita tantissime altre opere d’arte di rilievo, dei più grandi artisti del Novecento, da Boccioni a Balla, da Fontana a De Chirico, attraverso Manzoni, Sironi, Carrà, Guttuso, fino ai più noti artisti stranieri, da Picasso a Klee, da Braque a Matisse, solo per citarne alcuni.
La visita al museo parte proprio da “Il Quarto Stato”, magistralmente collocato sulla rampa elicoidale realizzata al centro dell’Arengario e attraversa l’arte del XX secolo.
La storia del quadro di Pellizza da Volpedo è controversa, come quella di ogni grande opera che si rispetti. Lo sciopero dei contadini piemontesi: un soggetto moderno per gli anni in cui veniva dipinto, veniva presentato a Torino senza riscontrare successo ma, acquistato da una sottoscrizione pubblica da parte di Milano, è sempre di fatto stato esposto nella città lombarda.
L’Arengario, costruito negli anni ’50 del secolo scorso su progetto di Portaluppi, Muzio, Magistretti e Griffini, è stato restaurato a partire dall’inizio del 2009, per ospitare il Museo del Novecento. Il progetto del nuovo museo porta la firma di Italo Rota e Fabio Fornasari.
Il rinnovamento dell’edificio ha rappresentato anche una vincente occasione di ricerca di dialogo tra l’edificio stesso e la città, che appare bellissima dalle ampie vetrate dell’Arengario, che danno sulla Piazza del Duomo e dalla quale è possibile ammirare la sempre bellissima Torre Velasca. Inoltre, il museo ha un collegamento diretto con la stazione della metropolitana, che lo colloca a maggior ragione nell’ambito di una scelta di promozione della città e dell’arte, e soprattutto di dialogo tra la città e l’arte.
Gli architetti che hanno progettato la trasformazione dell’edificio hanno dovuto coniugare il difficile compito di ottimizzare gli spazi per ospitare una così corposa collezione con quello di restituire all’edificio un’immagine forte, viva e seducente, che peraltro aveva già posseduto in passato.
Il Museo del Novecento sembra destinato a diventare uno dei luoghi privilegiati della cultura e dell’arte a Milano, finalmente in grado di competere con le recenti gallerie d’arte fiorite nelle principali città d’Italia, si pensi, ad esempio, al recentissimo Maxxi di Roma.
Il Museo del Novecento aspetta quindi solo di essere percorso e apprezzato, oltretutto gratis, fino al 28 Febbraio.

domenica 6 febbraio 2011

Stolu, lo scultore del Matese


Il Massiccio del Matese, che si estende nell’Appennino centro – meridionale, a cavallo tra il Molise e la Campania, è un massiccio di origine carsica, pertanto fatto in prevalenza di calcare, come il prezioso marmo di Carrara, ma per formazioni geologiche completamente diverse da quello.
Il Biondo nella prima metà del XV secolo, nella sua “Italia Illustrata”, così descriveva il Matese: “Il Matese, promontorio degli Appennini, superbo si eleva e si distende verso il Mediterraneo, … molto sterile e roccioso fu il monte su cui abitarono i primi forti Sanniti.”
E chi lo vive o lo ha vissuto sa che è tutt’ora esattamente così. La roccia lo conforma e ci circonda, proteggendoci le spalle, quando il nostro sguardo si volge verso il mare.
Chiunque se ne intenda un minimo di geologia, anche solo per sentito dire, sa che il calcare è annoverato tra le rocce più tenere e lavorabili tra tutte quelle presenti sul pianeta.
Ma provate a chiederlo a Stolu cosa ne pensa?
Luigi Stocchetti, in arte Stolu, plasma il calcare del Matese, come da sempre fa l’acqua. E’ per questo che mi piace definirlo lo “Scultore del Matese”. Del Matese, infatti, egli plasma il materiale, ma ne traduce anche i caratteri delle persone, le peculiarità della storia, e le sfumature delle caratteristiche geografiche.
La sua scultura è a mio avviso a cavallo tra espressionismo, cubismo e astrattismo, senza per questo essere retrograda e superata. In particolare, le figure umane, numerose nella produzione artistica dello scultore, ricordano per certi versi le figure dei pittori espressionisti tedeschi, e in alcuni particolari, delle ricerche di Picasso o altri cubisti sulle figure femminili. Mi riferisco in particolare alla scomposizione nella quarta dimensione, che siamo forse maggiormente abituati a considerare per la pittura, ma che caratterizza anche alcune opere scultoree più o meno note, e che sicuramente riguarda le sculture di Stolu.
Per comprenderle fino in fondo bisogna guardarle da tutti i lati, non hanno un verso, o forse è più corretto dire che ogni verso racconta una parte e contribuisce alla comprensione generale dell’opera.
Stolu ha un laboratorio a cielo aperto, in un angolo di paradiso del Matese, in aperta campagna, subito a sud del centro abitato di Letino. Quando scolpisce la pietra che tiene tra le mani è la stessa che ha davanti a se e tutt’intorno, quella plasmata dal tempo, altro sapiente scultore.
Ho visitato numerose volte questo suo laboratorio che è al tempo stesso un “campo” disseminato di sculture, che si ergono fiere sul prato, con i monti del Matese che si stagliano all’orizzonte, per poter portare con me un po’ della sua arte, ma anche solo per confrontarmi con lui, e ogni volta mi ha colpito la quantità e la qualità della produzione, mai uguale a se stessa e sempre alla ricerca di nuove direzioni.
Allego volentieri al post il link ad un’interessante intervista che lo scultore ha rilasciato un po’ di tempo fa, che aggiunge a questo mio pensiero alcune notizie biografiche sull’artista e approfondisce alcuni aspetti della sua opera.
A chiunque dovesse capitare dalle parti di Letino consiglio invece di andare a vedere di persona il luogo in cui Stolu lavora. A segnare il percorso, a prescindere da dove si arrivi, si troveranno ovunque le sue opere, nei luoghi pubblici dei paesi arroccati sul Matese o disseminate nei giardini privati, a denunciare l’appartenenza a un luogo e la dedizione all’arte che lo rappresenta.

In foto, il profilo del Matese scolpito da Stolu, Agosto 2010