sabato 22 ottobre 2011

E' l'America il posto. E tanto basta.



Sono andata a vedere “This must be the place” il giorno in cui ho finito di leggere “Americana”, romanzo di esordio del grandioso Don DeLillo. Sarà pure una coincidenza, ma allora è fortunata.
Il film e il libro sono entrambi la narrazione spettacolare del sogno americano, della ricerca di se stessi e del viaggio di espiazione/redenzione attraverso le lande sterminate dell’America.
Cheyenne (uno Sean Penn da Oscar) è un uomo di successo, profondamente depresso, che si appiglia all’occasione sfortunata che lo porta in America, per compiere il suo viaggio di ricerca introspettiva attraverso i paesaggi sterminati di quel paese, le praterie, i distributori completamente deserti, i motel dalle nuance così scontate.
Vedere il film, avendo ancora così chiara nella mente la narrazione di DeLillo, è stato come se le parole venissero fuori dal libro e diventassero immagini a colori: come se il viaggio di Cheyenne fosse anche un po’ quello di David Bell, protagonista di Americana.
David lascia il suo posto da manager, e parte per un viaggio senza biglietto di ritorno, nell’America più lontana, quella più autentica e meno blasonata.
David Bell deve allontanarsi dalla sua quotidianità per ritrovarsi e per capire che quello che è diventato non è coincidente con quello che vorrebbe essere. Mentre Cheyenne deve rincorrere il passato del padre, per crescere, finalmente, e diventare uomo.
“Quella via era un luogo totalmente americano, monumento alla nostalgia collettiva: leggevamo ad alta voce le insegne dei negozi e guardavamo i fotogrammi patinati nelle bacheche fuori dai cinema. Nessuno ci conosceva e noi non ci conoscevamo.” Sono le parole di David, ma ci parlano anche di Cheyenne, la rock star figlia di uno spettacolare Sorrentino.
In sostanza, ci sono tutti gli stereotipi del mondo americano sia nel libro che nel film. Quello che non si riesce a credere è come nel film a raccontarceli così sapientemente sia stato un napoletano del Vomero!
Belli entrambi questi racconti, anche se alla fine lasciano con il sospetto di aver voluto raccontare troppo: troppe storie che si intrecciano, troppi personaggi e tutti troppo sfaccettati, e lasciano nella sensazione che forse di facce e di storie ne sarebbero bastate anche la metà, per entrare nelle viscere di questo paese.
E’ questo forse a rendere lenta la narrazione del viaggio di redenzione di David Bell e quello di crescita di Cheyenne. Ma quello che me li fa piacere così tanto è che alla fine tutti e due centrano l’obiettivo, e imboccano la strada che vogliamo vederli percorrere.
“L’America può essere salvata solo da ciò che cerca di distruggere.” Continuiamo a percorrere questo sogno americano, che seppur stereotipato, stropicciato, saturo di icone, troppo spesso privo di emozioni, conserva la sua eccezionalità. Solo così potremmo sperare che anche l’America, non più solo gli americani, possa partire per il suo viaggio di espiazione e introspezione, e perché no, anche ritrovarsi, e riscoprirsi così com’è “… il paese più strano, favoloso e pazzesco della storia.”

Riferimento bibliografico:
“Americana”, Don DeLillo, Einaudi, Torino 2008 (prima edizione americana 1971), traduzione italiana di Marco Pensante.

http://www.mymovies.it/film/2011/thismustbetheplace/ Trailer di “Must be the place”

http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/137/cafelib.htm Scheda di Americana.

lunedì 3 ottobre 2011

Paolo Rumiz e la spina dorsale dell'Italia



Paolo Rumiz in “La leggenda dei monti naviganti” parla delle montagne italiane, struttura portante, colonna vertebrale di questo paese. Parte per un viaggio attraverso di esse, che dura 8000 km. Il viaggio vede il suo incipit, quasi simbolicamente, nel Golfo del Quarnaro (Fiume) e termina nel punto più meridionale della penisola, dove è ancora Appennino: a Capo Sud!
E’ un viaggio lungo l’Italia che parte dal mare e finisce al mare.
Paolo Rumiz è un saggio viaggiatore. Non lo si può definire turista, e chi conosce la differenza tra i due termini, sa cosa intendo. Ed è anche un narratore di viaggi, che spesso mi accompagna alla scoperta dei luoghi più reconditi di questa nostra terra vertebrata. Lo aveva già fatto con il suo spartano “viaggio in seconda classe”, attraverso le ferrovie dimenticate, soppiantate dalle “frecce” che l’arco delle FFSS ha saputo regalarci.
Rumiz è in grado di raccontare gli aspetti più autentici e semplici dei luoghi, che spesso non riusciamo a intrappolare nelle nostre macchine fotografiche, perché poco accorti, e troppo presi dalla velocità.



Egli viaggia l’Italia con il tempo dovuto, annotando sul taccuino gli incontri speciali e le tappe del percorso. E nel suo viaggio lungo l’Italia incontra numerose storie da narrare e numerosi narratori d’eccezione: e ci regala i suoi preziosi confronti con Mario Rigoni Stern, con Francesco Guccini e con Vinicio Capossela.
Quest’ultimo gli racconta la sua Irpinia, in un percorso che mi è familiare, ma lo è di più, sicuramente, il racconto del mio Matese e del mio Sannio, negli ultimi capitoli del testo, dove peraltro, tratta il delicato tema della transumanza e della triste fine di questa millenaria pratica attraverso i tratturi che solcano l’Appennino.
Rumiz peraltro si confronta di nuovo con questo territorio nel testo “Quota mille”, per le foto di Francesco Fossa, in cui aggiunge preziose righe a corredo di immagini già fin troppo eloquenti.
Così dice a proposito del Matese: “Tira un vento gelido, sui monti del Matese, e sulle Mainarde è nevicato fino a bassa quota. (…) Tutt’intorno, cime aguzze dal nome eloquente di Pinna, Pizzo e Capa. (…) Intorno, commensali dalle facce sannite, razza osco-umbra, silenziosa e chiusa nella sua lingua stretta da montanari”, parla del Molise, ma a un matesino del versante campano, è una frase che calza a pennello!

Riferimenti bibliografici:
Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”, Feltrinelli, 2007.
Paolo Rumiz, L'Italia in seconda classe, Feltrinelli, 2009.
Francesco Fossa, con scritti di Paolo Rumiz, “Quota mille”, Edizioni Punctum, 2010