
Che gli architetti non sempre vadano d’accordo con la grammatica e la sintassi della lingua italiana è ormai cosa nota e stantia e le librerie italiane sono piene di tali testimonianze. Spesso poi le archistar si accusano vicendevolmente di non essere all’altezza di farlo, e finiscono per discutere di quello più animatamente dei problemi che affliggono la nostra architettura italiana contemporanea. E’ quello che è successo anche di recente sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano”.
Questo post, infatti, prende spunto da un articolo, che a latere dell’argomento principale, ovvero la crisi degli architetti italiani, parlava anche di ciò: della loro ostilità nei confronti della scrittura!
Autore dell’articolo a cui mi riferisco è Luigi Prestinenza Puglisi, ed è stato pubblicato nel supplemento “Saturno” dedicato alle arti, de “Il Fatto Quotidiano” di venerdì 8 luglio 2011.
Prestinenza Puglisi analizza la tesi di Pippo Ciorra sviscerata nella sua ultima fatica letteraria pubblicata di recente da Laterza, “Senza Architettura. Le ragioni di una crisi”.
Il libro di Pippo Ciorra, curatore tra l’altro della sezione architettura del nuovissimo Maxxi romano, espone la gravità della crisi in cui soccomberebbe, a sui avviso, l’architettura italiana contemporanea.
La tesi è peraltro banale e trova numerosissimi paralleli negli altri ambiti della cultura e della società, e sostiene che, quando si tratta dei settori della creatività e delle espressioni artistiche, il nostro paese incontri sempre delle serrate resistenze alla diffusione dell’innovazione.
Ma una conclusione di questo tipo rischia di ridurre al nocciolo, peraltro un po’ “smangiucchiato” ed eroso la annosa questione.
Si cade spesso nella banale osservazione per cui sotto il cielo d’Italia non si costruisca niente di nuovo e si finisce per banalizzare ulteriormente la questione affidandone la responsabilità all’abbondanza di architetti, alla cattiva preparazione degli stessi, alla fallimentare organizzazione delle facoltà di Architettura disseminate in lungo e in largo per lo stivale, alla mancanza di occasioni appetitose (leggi “concorsi di idee”) in cui esprimere al meglio la propria inventiva, ma probabilmente non è proprio così se si osserva la questione dal punto di vista, molto accorto, di Prestinenza Puglisi.
Se provassimo infatti ad allungare il naso un po’ oltre i confini della nostra “Italietta” , ci potremmo accorgere che la creatività degli architetti italiani non è così deprimente come Ciorra vorrebbe farci credere.
I progettisti italiani sempre più spesso negli ultimi anni riescono a spuntare all’estero incarichi di successo e notevole prestigio. Si pensi a quanto hanno costruito negli altri paesi Renzo Piano e Massimiliano Fuksas, ma anche alcuni gruppi e progettisti singoli più giovani e più “freschi”, come Mario Cucinella, Michele De Lucchi, Matteo Thun, Cino Zucchi o Italo Rota. E i risultati dei concorsi più recenti testimoniano che presto avremmo altri edifici a firma italiana nei posti maggiormente in vista del continente.
Inoltre, è vero anche un altro aspetto: non sempre la buona architettura italiana va ricercata dietro le grandi firme. E solo affinando un po’ il nostro spirito di curiosità si possono scorgere nella provincia italiana edifici di notevole pregio seppur non griffati!
Si corre il rischio di stare dietro sempre ai soliti nomi e di trascurare il resto che potrebbe rappresentare la parte più interessante.
Il fatto è, a mio modesto parere, che forse la cultura architettonica contemporanea vicina al mondo accademico, è in Italia ancora troppo legata a quello che è successo nel secolo scorso. E uno dei sintomi più eclatanti di ciò è che, sebbene di indiscutibile insegnamento, si facciano vedere agli studenti sempre e solo le solite cose: se i corsi di composizione architettonica delle facoltà italiane la smettessero di ruotare esclusivamente intorno ad Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Vittorio Gregotti, Franco Purini, e affini, forse riusciremmo a vedere il bello e il nuovo che già ci circonda!
Il paese non è “senza architettura” e, i numeri lo dicono, neanche senza architetti. La soluzione per il ritorno dell’architettura in Italia non passa attraverso la commissione di progetti faraonici alle archistar contemporanee, nella speranza di vedere replicato il successo che Bilbao ha riscosso dopo la costruzione del museo Guggenheim.
Un atteggiamento di questo tipo finirebbe solo per tagliare fuori dal mercato locale le generazioni più giovani che a ragion veduta vanno ad esprimersi in posti maggiormente aperti alle nuove idee.
Bisogna puntare sui giovani, affidando loro il cambiamento verso una radicale ridistribuzione del potere culturale e accademico, che sappia guardare alla sensibilità e al coraggio delle istituzioni e dei committenti, nazionali e internazioni, piccoli e grandi, pubblici e privati, e alle scelte imposte dalla realtà in cui viviamo, come la sostenibilità ambientale e la riduzione del consumo di suolo.